#nuovoannoscolastico

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Com’è giusto che sia, ogni inizio di anno scolastico è per ciascuno di noi l’occasione per concretare ed esprimere tutto l’insieme di finalità, di speranze, di progetti e di sogni che vogliamo affidare alla Scuola, così da formare e istruire i nostri ragazzi – cittadini di una società e di un mondo prossimi che auspichiamo migliori di adesso, più intrisi di legalità, di pace, di rispetto e di diritti.
Io, che come tanti sono un soldato del MIUR, mi auguro di fare del mio meglio per lasciare qualcosa di positivo e di proficuo nei ragazzi con cui interagirò per dieci mesi. Innanzitutto, ho fiducia in un anno sempre in presenza, finalmente privo (o almeno per gran parte privo) del problema Covid et alii. Poi, attuando una virtuosa sintesi fra storia passata e recenti fatti di cronaca, spero, insieme con i miei colleghi, di insegnare a usare correttamente i dispositivi tecnologici odierni, indispensabili nell’e-tutto contemporaneo; di insegnare a scrivere in modo opportuno un testo (utile dal commento a un post fino alla prova scritta del concorso in Magistratura); a leggere e comprendere una pagina (leggendola fino in fondo, senza porre domande che trovano una risposta evidente già verso la fine); a saper esporre facendosi capire da chi ascolta (perché è chi ascolta che deve capire grazie a noi, non vale solo la nostra intenzione bella). Vorrei che fosse prioritario il sentirsi accettati per quel che si è, indipendentemente se si è bravi nello studio o no; l’offrirsi per risolvere insieme un problema, non facendo mai percepire che aleggia la frase “Sono affari tuoi, peggio per te”; l’imparare a trovare in se stessi la forza per autocontrollarsi e gestire le emozioni, perché non è possibile ammazzare a mani nude uno che non ci ha dato la precedenza all’incrocio oppure una partner che ha deciso di lasciarci. Infine, mi piacerebbe trasmettere ai nostri ragazzi l’idea che il benessere psicofisico è fatto anche di rinunce, dilazioni, desistenze, che in età scolare la notte si dorme, che dobbiamo organizzare in tempi diversi le tante cose che possiamo fare, in modo da non compromettere, con lo stress e il sonno perso, l’equilibrio e l’energia di cui necessitiamo per affermarci oppure modificarci al meglio nel quotidiano adattamento alla realtà (quella fisica, non quella virtuale degli schermi).
Sono convinto che ci impegneremo affinché i propositi non restino tali, superando la sfiducia – indotta dal pensare che “tanto ciascuno di noi è solo una goccia nell’oceano”, – tramite la convinzione che l’oceano è fatto dalla somma delle gocce, e che non riusciremo mai a sapere dove possiamo arrivare se di fatto non ci proviamo tutti insieme.
Con questo spirito esortativo, auguro un buon anno scolastico a studenti, genitori, collaboratori, colleghi insegnanti e Dirigenti!

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Saretta. Recensione di una lettrice che vuol rimanere anonima.

saretta; francescoricci; libro;

Leggere. Un doppio viaggio. Quello alla scoperta o riscoperta di se stessi attraverso le parole e le emozioni di qualcun altro e quello alla scoperta dell’autore, dei pensieri che decide di condividere con il mondo.
Ogni libro si può leggere a più livelli e in questo, con piacere, sono salita e scesa, su e giù, tra le righe e gli spazi, cogliendo la musicalità del suo pentagramma.
Saretta. Primo livello – sociale: storia triste di chi oggi e allora ha il destino segnato da race, milieu, moment, il determinismo di fattori biologici, ambientali e dal momento storico che schiaccia l’animo e il corpo. Abbandonata a se stessa, la protagonista vive nella scia segnata dall’ambiente in cui è cresciuta, che ha creato dei solchi profondi nella formazione della sua personalità. Venuti meno gli unici esempi positivi e profumati di affetto, continua in una discesa verso il male, sempre più repentina: furti, malavita, estorsioni.
Nello sfondo (ma solo in apparenza, perché centrale, in realtà) la scuola, che al di là delle belle parole sembra reagire con astio e sanzioni.
È il buon cuore di una prof che risolleva e cambia il destino di chi non trova altra strada da percorrere se non la perdizione. Ma perché proprio quella prof? Innanzitutto, non a caso figura femminile e non maschile, sensibilità e complessità di una donna e di una madre ancora tutta presa dall’accompagnare nella crescita la sua piccola e che riversa in Saretta l’affetto, quell’affetto che in una mamma si moltiplica e che non è mai esclusivo.
Ma perché proprio quella prof? Donna con una vita sfilacciata anch’essa…
Perché proprio quella prof?
Perché a un secondo livello – umano/personale – in Saretta in fondo si cela ognuno di noi. Lei non è completamente travolta dal suo destino, c’è una resistenza al vortice negativo della sua vita. Lei non vuole annullarsi con la droga, non vuole diventare una larva come la madre, e cerca così di resistere, di dire no e infine di scappare per non soccombere. E allora come non immedesimarsi a tratti in lei, nel desiderio di trovare una via di fuga quando la vita fa il suo corso e noi vogliamo seguire un’altra strada, quando la vita non va come te la immagini e ti accorgi delle difficoltà di prendere un altro sentiero. Ma non è mai tutto perduto. E poi è il bene, rappresentato dalla prof, a salvare la ragazza… Già, la prof che a un terzo livello di lettura, quello dei valori, incarna il trionfo del coraggio dei fatti sulle tante parole spese ogni giorno con gli alunni. Quando noi insegnanti entriamo nelle loro vite scombussolate e poi ce le riportiamo a casa e le loro esistenze si scontano con le nostre… ci rimangono dentro e ci accompagnano per anni; restano sì nei ricordi, ma non andiamo a fondo, e ci auguriamo che quelle parole, quel sorriso, quello sguardo possano aver dato sollievo e aperto la speranza…
E infine di tutta la carrellata di personaggi che sfilano e si infilano nella nostra vita rimane solo chi sa penetrare nell’immensa complessità umana…
Quanto allo stile, semplice ricercatezza lessicale, descrizioni vive e toccanti, capaci di immergere il lettore nella scena, tanto nella sensualità che nella tragicità.

Una lettrice che vuol rimanere anonima

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Saretta

Vorrei che conosceste questa ragazza difficile…
Vorrei che entraste nel suo cuore, scoprendone le fratture e gli strappi, le pieghe contorte, le parti buie e offuscate, come pure le zone ricche di luce naturale, abbaglianti, risplendenti di sete d’affetto e di capacità di amare, purtroppo represse da chi non ti viene incontro, e dai problemi di una vita complicata…
Vorrei che soppesaste i suoi pensieri e le sue azioni, ma soltanto dopo che avrete camminato a lungo di fianco a lei, seguendola come fa un viaggiatore attento che si sforza di capire, davvero, il mondo e gli altri…
Vorrei che la guardaste negli occhi mentre vi parla, o mentre vi racconta senza parole i suoi sogni, le sue speranze, mentre si confida, mentre chiede il vostro aiuto, magari la vostra comprensione…
Vorrei che conosceste questa ragazza difficile…
Vorrei che conosceste Saretta…

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Gli alunni che non capiscono il complemento oggetto…

Ieri, alla ricreazione, ho portato la classe nel cortile davanti all’ingresso della scuola. A un certo punto, dal cancello in fondo vedo avanzare verso di me un giovane in tuta da lavoro, che mi sorride contento. Arriva. – Ciao, prof! – mi dice. – Mi riconosce? –. Allora io lo guardo meglio; in effetti sono in difficoltà, intuisco che si tratti di un passato alunno, ma… Poi sul suo viso leggo un’impronta, perciò alla fine sì, lo riconosco, – Ciao! – e come prova lo chiamo per nome, esco dal primo impaccio sottolineando quanto lui sia inevitabilmente cambiato con gli anni, con la crescita… – Lei invece non è cambiato per niente, prof; solo qualche capello bianco in più –. “Eh, magari…” penso, tra il compiaciuto e il disincantato.
– Stiamo facendo un lavoro qua vicino, e passando l’ho vista… La volevo salutare…
Ci scambiamo brevemente i convenevoli, poi di colpo mi fa: – Sa, lei, mi ha insegnato belle cose… Ha avuto pazienza… Anche se… (ride)… il complemento oggetto… e l’analisi logica… proprio non li capivo… (ride ancora).
Ed è proprio il complemento oggetto che me lo fa ricordare bene, questo ragazzo!
La mia memoria me lo fa vedere seduto da solo accanto a me alla cattedra mentre gli altri stavano in gruppi, lui, che apparteneva a uno fra i tanti e ricorrenti tipi eterni di alunno, quello spavaldo ma fondamentalmente debole che non ti fa i compiti, che non dà importanza agli argomenti che tu adori, che dice che tanto la letteratura non serve a niente nel mondo del lavoro… È vero, però: non riusciva proprio ad agganciare il complemento oggetto. Una di quelle volte che stava seduto accanto a me, un po’ scoraggiato giunsi a questa conclusione, e osservandolo così da vicino mentre scriveva sul quaderno mi chiesi a cosa servisse starmene lì con lui ad analizzare frasi su frasi. La risposta giaceva nella situazione che io e lui stavamo vivendo in quel momento: serviva a fare l’insegnante, a regalare una forma di esperienza umana, quella della comprensione, dell’aiuto e dell’impegno, a far sentire accettati per quel che si è, indipendentemente se si è bravi nello studio o no.
Quando lo vedo allontanarsi verso il cancello dopo che la campanella è suonata e ci siamo salutati, sento che anche lui mi ha insegnato belle cose.
Chiude il cancello, si gira, mi rivolge sorridendo un ultimo cenno con la mano.
Gli alunni che non capiscono il complemento oggetto…
Mentre rientro in aula con tutta la mia classe guardo con più affetto del solito gli alunni deboli che ho quest’anno.
Poi mi siedo alla cattedra.
C’è un volume-saggio di antologia poggiato da tempo lì sopra. Io non ho ancora capito bene le varie combinazioni di quando un libro di testo è in uso e in possesso, e ogni mese di maggio, compilando la tabella delle nuove adozioni, sbaglio… (30 maggio 2023)

prof Francesco Ricci
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È il tuo libro

È il tuo libro, che parla di te, e tu ci hai creduto, tutte le volte che ti sei fermato per inseguire un pensiero sfuggente, il bisbiglio di una sensazione, un’intuizione sulla trama o sulla piega interiore del protagonista… In auto, in casa, in mezzo agli altri ti sei tratto in disparte per appuntarlo sopra al primo pezzo di carta, o sul telefono, con la paura di non essere veloce a digitare i tasti dello schermo… Il tuo libro, che parla di te,
delle tue notti insonni per concederti il tempo che non hai, e quando le pagine si aprono come un ventaglio soffia la brezza di quei momenti di creazione, mentre rivivevi la tua vita o tentavi di vivere quella di qualcun altro… Il tuo libro, e chi lo legge ti scopre, risale a te incollando insieme i pezzi d’esistenza di ogni personaggio… Ma questa risultante ti riempie di orgoglio perché è ciò che più volevi, scrivendo, per esprimere te stesso…

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Io ti odio, Hank Moody di Californication!

californication; david duchovny, francesco ricci; scrittore

 

Ti guardo in streaming e ti odio, Hank Moody, protagonista dell’ormai vecchia serie Californication. Tu sei uno scrittore. Complimenti. Dal tuo libro migliore è stato tratto un film commerciale che non ti piace affatto. Capita. Per questo motivo vai in crisi, fin quando di colpo tiri fuori un altro romanzo, Californication, che diventa subito un best seller e tu ricompri la Porsche. Bravo. Ma io ti odio, Hank. Ti odio perché, è vero, sei uno scrittore, ma non ti si vede mai leggere un libro, mai studiare un autore, mai consultare un dizionario, cartaceo oppure on line, mai faticare per ore davanti al portatile, solo in casa, mentre fuori gli altri si divertono. Anzi, sei tu che ti diverti più degli altri, con belle donne che nemmeno ti conoscono ma che ti cadono continuamente addosso, e tu passi di letto in letto, bevi da spugna, fumi il lecito e l’illecito, a più non posso, e nonostante ciò le tue prestazioni amatorie sono sempre al massimo di intensità e durata, sei lucido come un astemio, quando parli o scrivi, Karen, la donna che ami, ti perdona e ti si riprende ogni volta, e poi riesci, non si sa come, pure a pubblicare di punto in bianco quell’altro dannato best seller intitolato Californication (ma quando hai trovato il tempo?!)!
Ti odiamo, Hank Moody, non ti invidiamo. Ti odiamo, ti odiamo, ti odiamo!

 

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Francesco Ricci – Intervento su disagio giovanile e devianza (stralcio)

Università “G. D’Annunzio” di Chieti – Dipartimento di scienze filosofiche, pedagogiche ed economico-quantitative (martedì 11 aprile 2017)

Francesco Ricci; Cinematerico; bullismo; università di Chieti

 

Si parla in generale di devianza quando si fa riferimento a comportamenti mediante i quali individui o gruppi vìolano le norme di una società. Il comportamento deviante comprende il comportamento  criminale, ma se ne differenzia per la diversità delle regole violate. Il primo è una violazione di norme sociali e morali, il secondo di norme giuridiche. Il primo riceve perciò le sanzioni conseguenti alla violazione di norme sociali, come la riprovazione. Il secondo riceve le sanzioni conseguenti alla violazione di norme giuridiche, come per esempio la detenzione.

Il comportamento deviante è espressione di un disagio, cioè di una condizione di malessere dovuta a diverse condizioni, per esempio alla difficoltà di adattarsi a un ambiente, oppure alla difficoltà di evaderne, o ancora all’impossibilità di realizzare se stessi, le proprie speranze, le proprie capacità. Può avere cause di natura sociale oppure motivazioni di ordine psicologico.

Mi sono confrontato con il tema del disagio giovanile analizzandone alcune manifestazioni e restituendole in due rappresentazioni letterarie di giovani devianti, un romanzo “Cinematerico e un racconto “Male minore”, in cui ho posto in relazione il disagio giovanile, che può esprimersi nella devianza, con l’attuale contesto storico.

È indubbio che stiamo vivendo un’epoca nuova, caratterizzata da importanti cambiamenti tecnologici ed economici rispetto all’epoca precedente.

I principali aspetti di questo nuovo contesto storico possono essere principalmente tre.

1.) Innanzitutto l’economia globalizzata e il mutamento della struttura occupazionale delle società postindustriali. Chi si affaccia oggi al mondo del lavoro spesso percepisce incertezza, precarietà, sensazione di prospettive precluse, una sensazione di disorientamento che spinge talvolta a cercare certezze in manifestazioni estreme, come forma compensativa di affermazione  sociale.

2.) In secondo luogo i mutamenti nella tecnologia di comunicazione, che hanno condotto alla sovrabbondanza e obsolescenza della conoscenza e dei modelli. Difatti, la velocità dell’esposizione sociale delle informazioni dovuta alla tecnologia determina il loro continuo conflitto, e quindi una frequente erosione della certezza. Come ha osservato il sociologo Anthony Giddens (Il mondo che cambia, 2000), soprattutto nei Paesi occidentali questo avviene anche con le tradizioni e con i riti sociali prima riconosciuti e praticati all’interno delle culture, che comunque davano una misura all’esistenza dell’individuo, non lasciandolo solo nelle scelte che egli doveva prendere all’interno della sua vita, specialmente riguardanti l’identità, la famiglia, la sessualità, la procreazione, il modo di trattare le differenze di genere e di cultura. Le tradizioni sopravvivono, ma il conflitto con altre tradizioni conosciute dagli individui attraverso i mezzi di comunicazione e attraverso la quotidianità nelle società multietniche le svuota di autorevolezza, rendendole personali, esteriori e meno vincolanti.

In questo, forse, è venuta meno l’intuizione di Marshall McLuhan, che coniando nel 1964 l’espressione “villaggio globale” (“Gli strumenti del comunicare” – originale: “Understanding Media: The Extensions of Man” ) pensava che i media avrebbero esteso su scala planetaria l’appartenenza comunitaria che le persone sentivano nel locale. Invece, quello che a mio avviso spicca è proprio l’aspetto anomico della globalizzazione, che indebolisce nell’individuo il sentirsi parte in modo esclusivo di qualcosa, accomunandolo sempre meno agli altri della sua stessa collettività.

Il naturale bisogno di sicurezza, sommato alla spiccata coscienza dei rischi presenti all’interno della nostra società, mette perciò in crisi le giovani generazioni, determinando una particolare liquidità della loro vita. Come ha scritto Bauman, ad esempio, la vita liquida è una corsa frenetica, una vita precaria e incerta, in cui imparare dalle proprie esperienze è impossibile perché le condizioni entro le quali esse accadono cambiano continuamente.

3.) Infine il consumismo esteso, uno dagli aspetti connaturati alla globalizzazione attuale, e sul quale in effetti poggia l’intera economia mondiale. Sempre Zygmunt Bauman, nelle due opere Vita liquida (2006) e Homo cònsumens (2007), ha sottolineato come, a caratterizzare le società occidentali, sia l’ansia di spesa degli individui, i quali, sono costretti a consumare se vogliono rimanere in una società che si autoalimenta appunto di consumo, per evitare di sentirsi frustrati, esclusi o addirittura emarginati. Se questo è vero, viene a toccare proprio le categorie economicamente più deboli, tra le quali possiamo annoverare i giovani in cerca di occupazione o che si stanno preparando per entrare in un mondo del lavoro più difficile e competitivo.

Quindi, a mio avviso, il disagio giovanile assume una duplice caratterizzazione.

Da un lato disagio, tensione, paura di sbagliare, che possono generare un desiderio di stordimento, di fuga dalle scelte, dalle responsabilità.
Dall’altro, frenesia di vivere senza pause, provando tutto ciò che è possibile nell’arco di tempo di una vita, andando dietro a un mondo umano sempre acceso e connesso, che attraverso i mass media globalizzati presenta infinite e sempre nuove cose da sperimentare e da consumare.
Proprio in tali dinamiche può innestarsi il ricorso a una delle forme più deleterie e diffuse di evasione: le droghe, che hanno la mitologia negativa di assecondare questi bisogni e alimentano gli interessi e le economie della criminalità.
L’utilizzo delle sostanze stupefacenti rientra nella devianza, in quanto degenerazione di un comportamento corretto, che è quello di accettare i limiti del corpo umano e di trovare nella nostra sfera interiore l’equilibrio e le risorse per adattarci alle difficoltà della vita.

[…]

Nel mio racconto Male minore ho invece affrontato il fenomeno del bullismo, un’altra forma di devianza, diffusa e pericolosa

Il bullismo rientra a tutti gli effetti nella devianza. Attualmente è diventato un problema serio che tanti studenti vivono ogni giorno, dentro e fuori la scuola oppure nella virtualità onnipresente del cyberspazio.
Dico subito che il bullismo va condannato, respinto, conosciuto meglio e prevenuto con tutte le forze a disposizione, perché crea non solo situazioni pericolosissime che minacciano l’incolumità delle vittime, ma in prospettiva produce, a seconda delle posizioni, sfrontata abitudine al crimine o gravi traumi psicologici in coloro che saranno i futuri adulti e i futuri cittadini della nostra società.

Attualmente anche per la fascia di età corrispondente agli anni di scuola superiore di I e di II grado si può parlare di una sorta di fragilità. Oltre a problemi di ordine economico-sociale o di natura psico-affettiva, che possono generare un comportamento deviante,  ci sono da sottolineare i contesti familiari deprivati e la modellizzazione negativa che avviene quando sui nuovi canali comunicativi vengono ricercati contenuti violenti, o azioni provocatorie ambientate dentro e fuori scuola, tali da indurre negli individui più aggressivi forme di imitazione immediata, che coinvolgono presto anche gli altri elementi del gruppo di pari.

Fra tutti gli aspetti che caratterizzano questa relazione distorta fra ragazzi, – se pensiamo che i genitori sono il fulcro dell’apprendimento infantile o almeno il primo punto di riferimento sociale, – permane dominante l’ambiente familiare e il modello educativo che i genitori trasmettono ai figli. Ma anche la società nel suo sistema valoriale e nelle sue modalità funzionali può essere co-responsabile, promuovendo comportamenti dominanti e prevaricatori che possono in qualche modo rendere più facile, nei ragazzi in crescita, il manifestarsi di una personalità aggressiva.

È vero poi che non tutti gli atti di bullismo avvengono nella scuola, ma la scuola è senza dubbio l’ambiente dove più facilmente si possono osservare, contrastare, ma soprattutto prevenire.

Il racconto Male minore e il progetto scolastico di cui ha fatto parte non rappresentano soltanto un’esperienza letteraria, ma sono stati un’esperienza didattica ed educativa molto speciale, che hanno permesso ai ragazzi coinvolti di acquisire maggiore conoscenza e maggiore consapevolezza del fenomeno.

Ecco, appunto, il tema della consapevolezza, come orizzonte educativo finalizzato alla costruzione delle identità autonome e consapevoli.

Far acquisire conoscenza e consapevolezza nelle nuove generazioni resta una meta imprescindibile per chi si occupa di educazione a vari livelli: genitori, insegnanti, operatori.

Conoscenza e consapevolezza sono forze che da sole non risolvono una condizione di disagio e di incertezza legata come abbiamo visto anche e per lo più a motivazioni economico-produttive, ma sicuramente aiutano l’individuo ad adattarsi alla realtà, a promuovere in se stesso cambiamenti e modificazioni piuttosto che vie di fuga o atteggiamenti anacronistici.

Un mutato scenario storico dove le informazioni sovrabbondano e si accrescono velocemente, e dove procedure e modelli diventano presto obsoleti, richiede lo sviluppo di nuove competenze, che permettono all’individuo di inserirsi nel mondo lavorativo e sociale; richiede lo sviluppo della capacità di imparare, selezionando e organizzando autonomamente le informazioni a seconda degli scopi; della capacità di saper rivedere le proprie impostazioni iniziali, trasferendo in nuovi contesti abilità pregresse o acquisendone di nuove per l’intero corso della propria esistenza.

Infine, se lo sviluppo scientifico e tecnologico, non solo considerato nella fase attuale, ma soprattutto guardato in prospettiva, inducono al ritorno di una mentalità positivistica e a una sorta di scientismo tecnologico, e a ritenere preponderante e quasi esclusivo per i giovani l’apprendimento di tecniche specializzate, spendibili nei vari ambiti lavorativi, resta però indispensabile, nei loro anni di formazione, l’assorbimento della cultura umanistica, in grado di generare un nuovo umanesimo, di far interiorizzare il valore della persona umana, nella sua dignità, nelle sue componenti fisiche e interiori, così da favorire il senso del limite, il rispetto degli altri, l’empatia, la stessa intelligenza emotiva.

La scuola, fra tutte le istituzioni che a diverso titolo devono essere coinvolte per prevenire e combattere la devianza e per aiutare i giovani a risolvere il disagio, rappresenta il luogo privilegiato dove, attraverso il contributo delle scienze dell’educazione, generare una diversa sensibilità e acquisire tutto questo, perché è da sempre il luogo privilegiato per apprendere conoscenze e competenze, per assumere comportamenti civili e democratici, per educare a una convivenza pacifica in cui la dignità di ciascuno e di tutti deve essere salvaguardata e mai calpestata.

©  Francesco Ricci. Riproduzione riservata.

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Francesco Ricci – Elevator pitch di tre minuti su Cinematerico. Dal film Blade Runner all’elogio della Letteratura


Cinematerico; Francesco Ricci; Blade runner; letteratura


Testo recitato in occasione della serata finale del contest letterario La notte dei libri 2016

– Quale sarebbe il tuo problema?
– La morte! […] Io voglio più vita, padre!

È uno spezzone del dialogo fra l’androide Roy e il suo ingegnere creatore dottor Tyrrel, nel famoso film di fantascienza Blade Runner.
Questo spezzone di dialogo mi è venuto in mente una sera, quando davanti al computer stavo scrivendo le ultime pagine del mio romanzo Cinematerico.
Così. Un’associazione improvvisa.
Sulle prime ho cercato di capire, facendo un paragone irriverente, se i quattro giovani protagonisti di Cinematerico avessero qualcosa in comune con i protagonisti di Blade Runner. No, mi sono risposto. Lele, Dodo, Bricco e Nilo sono quattro malavitosi pescaresi al soldo di una banda criminale capeggiata dal Nero; il loro problema principale è fuoriuscire da una situazione che li incastra, e al più presto, nell’arco di tempo di un sabato notte. Non ci ho visto nessuna attinenza con quel film e riferimenti al nostro bisogno religioso di prolungare la vita dopo la morte sono del tutto assenti.
Ma poi, ripensandoci nei giorni successivi mentre rileggevo, ho sentito che la mia interpretazione di quel “più vita” non era in senso estensivo, ma in senso intensivo.
Creare l’esistenza dei miei personaggi, vederli vivere nel loro ambiente, entrare e uscire dal loro animo e partecipare a tutte le loro vicissitudini, intensificava la mia vita, moltiplicando gli scorci sulla realtà e agendo sulla qualità delle emozioni.
Ma questa, mi sono detto, è la meravigliosa bellezza della Letteratura. Quando ci abbandoniamo alle righe di un romanzo o ci lasciamo scolpire dai versi di una poesia, il nostro io ingloba vite di altri, le percorre seguendone le sfaccettature, e alla fine ne esce arricchito di nuovi strati e di nuovi colori.
D’altronde, le matrici della nostra civiltà occidentale sono Socrate e Omero, cioè il dialogo e la narrazione, matrici che inconsciamente ci portiamo dentro, che da secoli ci aiutano a conoscere la nostra umanità e che ancora oggi, nell’epoca ipertecnologica e postmoderna che viviamo, possono darci valori e significati per mantenere la giusta rotta.
E allora, grazie Letteratura! Il mio vuole essere un tributo a tutte le opere e a tutti gli autori. E grazie a tutti voi per avermi ascoltato!


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Francesco Ricci, MALE MINORE (racconto sul bullismo)


male minore Francesco Ricci bullismo


MALE MINORE (racconto sul bullismo)

© Francesco Ricci, marzo 2016. Tutti i diritti riservati all’Autore. Nessuna parte di questo racconto può essere riprodotta o utilizzata in tutto o in parte senza il preventivo assenso dell’Autore.

Il racconto integrale è all’interno del libro Passi di danza pensante, Masciulli Edizioni, 2017


MALE MINORE

 

La mamma mi chiede cos’ho. Io faccio di no con la testa e riprendo a mangiare con finta voracità la pastina olio e parmigiano della sera, perché so che questo la rende contenta. Lei mi dona un sorriso languido, misto di comprensione e debolezza, mentre infila il cucchiaio pieno nella bocca spalancata di mio fratello, seduto accanto a lei, sul seggiolone.
Non riesce ad andare oltre, come al solito, però secondo me intuisce di che si tratta. Giorni fa i genitori di Alessia le hanno accennato qualcosa di ciò che accade nelle ultime settimane. Tuttavia, quel qualcosa per lei è una grana, una grana in più fra le tante, da risolvere parlandone con la preside, col prenotarmi un incontro dallo psicologo del consultorio, o, se necessario, con il farmi cambiare scuola. Non immagini neanche, mamma, quello che ho passato oggi e quanto mi sento umiliata!
Invece papà non si accorge di nulla. La sua attenzione è assorbita dalla bacheca di Facebook sul telefono e dall’anteprima della partita di Champion’s in televisione. I post pro e contro la Juve si sprecano. Li legge, li commenta, li condivide, e io lo fisso.
Per lui va sempre tutto bene. Deve andarti sempre tutto bene, se hai tredici anni, perché non puoi capire quali sono gli impicci da adulto! Se mi azzardassi a raccontargli l’ultimo episodio, prima sarei accusata di finire solo nei guai, poi mi ripeterebbe che alla mia età non si faceva mettere sotto da nessuno, lui. Non era nel gruppetto che contava, certo, ma non si faceva mettere sotto da nessuno. E lo stesso le sue sorelle.
Le immagini di zia Anna e di zia Roberta mi passano rapide davanti.
Chissà se è vero. Per me sono creature senza storia, sempre state come sono adesso.
Sospiro, delusa. Da quando al lavoro rischia la mobilità, papà è diventato più duro e nervoso, e qui a casa l’atmosfera si è appesantita parecchio.
Storno lo sguardo e accarezzo con il dito il mio cellulare, lasciato sulla tovaglia, di fianco al piatto. È spento, ma loro non lo sanno. Ogni tanto fingo di guardarlo, in attesa di un messaggio, come faccio spesso, come fanno tutti. Ma sin dal primo pomeriggio ho il terrore di accenderlo, perché sono sicura di trovarci soltanto il male.
Per colmare la pausa nel nostro dialogo stentato, mamma mi chiede se ho finito i compiti.
– No, – mento. – Mi manca tecnologia.
Ingollo gli ultimi due cucchiai di minestra.
– Anzi, vado, altrimenti si fa tardi.
– E il secondo?
– Dopo.
– Signorina, torna subito qua! – ordina mio padre, ritornando presente, quando ho quasi raggiunto la porta della cucina.
Mi giro.
– Ma papà…
– Qua, – ripete con decisione.
Evito di ribattere, ubbidisco e torno a sedermi. Tanto fra poco inizierà la partita.
Un piatto piano con due involtini al sugo viene messo da mamma sul tavolo.
– C’è pure l’insalata.
– Grazie.
Riprendo a mangiare, meccanicamente, senza gustare nulla. Mattia inizia a fare vocalizzi di “a” e di “o” e i miei si squagliano, in particolare papà.
– Continua così, papino, che parlerai presto!
L’ha esclamato con tutto l’orgoglio e il candore di chi ridiventa padre dopo dodici anni.
Cinque minuti e il cellulare di mia madre risuona. Lei si alza e raggiunge la credenza. Il Samsung sta sobbalzando sopra al ripiano.
Legge sul display.
– Annamaria Rapattoni.
È la mamma di Alessia. Lei e suo marito sono gli unici genitori dei compagni di scuola con cui mia madre sia in contatto, dopo essere uscita dal gruppo WhatsApp della classe.
– Mamma, ti prego, non rispondere.
– Ma…
– Ti prego!
– Ma mi spieghi perché?
– Ti prego con tutto il cuore!
Resta bloccata, in piedi, con il telefono in mano.
L’espressione supplice del mio viso convince il suo istinto materno e alla fine non risponde.
La melodia viene sopraffatta dal volume del televisore, aumentato, poi si interrompe. Papà si è girato completamente con la sedia perché hanno dato il calcio di inizio.
– C’è qualcosa che non va? – domanda lei, per la seconda volta.
Alzo la testa e i miei occhi incontrano i suoi. “Non dirmi di nuovo dello psicologo,” la implorano.
Vengo messa alla prova, ma sono brava, non crollo. Ci riesco perché sono pure scarica. Ore prima, da sola in casa, ho già dato tutto: lacrime, grida, insulti, maledizioni.
La mia faccia si contrae per segnalarle indifferenza.
– Niente di che, i soliti problemi tra ragazze preadolescenti.
Un po’ per la risposta buona, un po’ perché deve pensare al pasto di Mattia, mi lascia sfuggire alla sua preoccupazione.
– Tra mamma e figlia si deve parlare, – ammette seria, mentre si riavvicina al seggiolone, senza guardarmi più.
Io non replico a quelle parole inutili. Aspetto che l’effetto passi e sono fortunata.
Giunta davanti a Mattia, inspira un paio di volte col naso.
– Sei tu, puzzolente!
La bocca le si apre in un sorriso divertito. Distende le braccia in avanti e, facendo specchio col viso alle smorfie di mio fratello, lo solleva dal seggiolone e lo porta di là per cambiargli il pannolino.
Il nostro discorso cade e in cucina rimane soltanto la voce del telecronista che segue la partita.
Approfitto del momento. Per sbrigarmi prendo una mela dalla cesta, la taglio e lascio le bucce sopra ai resti degli involtini che non mi vanno più.
– Papà, ho finito. Vado a fare tecnologia.
Lui ha un sussulto, sbatte le mani dalla contrarietà e impreca, ma si sta rivolgendo all’attaccante bianconero che ha sbagliato il passaggio durante un contropiede.
La mamma è ancora in bagno e io posso tornare indisturbata in cameretta.
Non lavo i denti, non faccio pipì, entro, metto il pigiama e mi infilo nel letto, al buio.
Sul comodino sporco di cioccolata lascio il cellulare spento e prendo il vecchio lettore mp3.
Le cuffie finalmente mi isolano dal mondo.
Seleziono il repeat della mia preferita: Sad song, dei We the kings.
Credo che non dormirò, perché la mortificazione e la tristezza che mi gocciolano dentro stanno nutrendo un desiderio inconfessabile. Non voglio più tornare a scuola. Voglio scappare di casa oppure – le palpebre si serrano forte – farla finita.

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Arancia Meccanica significato. La rappresentazione della violenza e l’espressione “clockwork orange”.


arancia meccanica Francesco Ricci

Il romanzo Un’arancia a orologeria (A clockwork orange) di Anthony Burgess fu pubblicato in Inghilterra nel 1962 e nel 1971 ne venne data una seconda trasposizione cinematografica da parte del regista Stanley Kubrick (la prima è quella, frutto di libera interpretazione, di Andy Warhol, nel 1965).
Il rapporto fra libro e film in questo caso è un rapporto virtuoso. La sceneggiatura, nonostante minime, inevitabili modifiche, mantiene l’impianto strutturale della trama del romanzo; inoltre, la codificazione in immagini secondo gli stilemi di Kubrick valorizza e non impoverisce le situazioni e i personaggi, rendendoli ancora più credibili e suggestivi.
Sono due gli aspetti su cui ci si vuole soffermare.
Il primo è il tema della violenza e della sua rappresentazione.
La tetrade malvagia dei protagonisti è composta di quattro giovani teppisti che si dedicano a ogni tipo di azione delittuosa e socialmente riprovevole: risse, rapine, pestaggi e violenza sulle donne.
Il fatto stesso di mostrare tali azioni nella loro aborrevole realtà ha condotto il libro prima e il film poi dentro un ciclone polemico dal quale si è usciti soltanto nel tempo, grazie alla presa di coscienza che il male e la violenza non esistevano perché Burgess e Kubrick li avevano rappresentati.
Alla luce della nostra prospettiva storica siamo in grado di reggere sicuramente meglio l’impatto con Arancia Meccanica rispetto al pubblico degli anni Sessanta e Settanta, tuttavia c’è chi dice che, nonostante tutto, la sua lettura/visione abbia ancora oggi l’effetto di un bel “pugno allo stomaco”. In particolare, si resta impressionati dalla rappresentazione del femminicidio e degli stupri tentati o realizzati. Il tentativo di stupro di gruppo della giovane “devochka” da parte della banda di Billyboy, abbandonato solo per dare precedenza allo scontro con Alex e i suoi drughi. La violenza sessuale contro la signora Alexander, moglie dello scrittore progressista, perpetrata nella sua stessa dimora, il cui trauma non superato condurrà alla morte. L’aggressione alla “signora dei gatti”, che infine resta uccisa, colpita da Alex con una fallo-scultura che adorna la sua clinica bizzarra.
Per quanto esecrabili, tali fatti e tali personaggi rientrano nella verosimiglianza; non si può dire che averli rappresentati è equivalso a celebrare protagonisti fantastici e azioni d’effetto, facendo una sorta di apologia di reato. Ancora oggi, e ci auguriamo tutti che presto non sarà mai più così, i dati di realtà relativi alla violenza sulle donne e alle sue modalità sono raccapriccianti. Anthony Burgess stesso ha vissuto da vicino il dramma dello stupro quando la sua prima moglie fu violentata da alcuni disertori durante la Seconda guerra mondiale.
Il secondo aspetto concerne il significato dell’espressione “arancia meccanica”.
Il punto di partenza è il desiderio sociale di punire e controllare chi commette il male, presentandosi come un grave pericolo per l’ordine e la stabilità. Alex, il cui nome stesso suggerisce l’assenza di legge, è un elemento destabilizzante talmente pericoloso da richiedere un intervento di neutralizzazione. Con la “cura ludovico” egli viene sottomesso mediante una drastica forma di condizionamento, che ne fa interiorizzare una risposta inibitoria di qualsiasi azione delittuosa. Ma questa modifica va a scapito della sua umanità. Alla fine Alex non commette più azioni malvage, non perché ha capito che sono sbagliate, ma perché quando ha intenzione di compierle scatta in lui una reazione meccanica che lo frena con violenza. Ciò lo fa essere un’arancia a orologeria (a clockwork orange), un congegno obbligato a muoversi sempre nella medesima direzione, costretto senza libero arbitrio a commettere solo il bene.

“… Il tentativo d’imporre all’uomo, una creatura capace di sviluppo e di dolcezza, capace alla fine di attingere il succo delle barbute labbra di Dio, di cercare d’imporre, dico, leggi e condizioni appropriate a una creazione meccanica, è contro questo che io alzo la mia penna-spada…” (pag. 31)

Io, io, io. E io? E a me non chiedete nulla? Sono forse una specie di bestia o un cane? […] Devo forse essere soltanto un’arancia a orologeria? (pag. 147)

In fondo eri un essere umano, e loro ti hanno cambiato in qualcos’altro. Non sei più in grado di scegliere. Ora sei obbligato a compiere soltanto delle azioni socialmente accettabili, come una macchina capace di fare solo il bene (pag. 180)

Risiede proprio qui la differenza tra l’arancia meccanica e l’arancia naturale. L’arancia meccanica è un’arancia di viti, ingranaggi e parti metalliche, di fatto qualcosa che non può essere un’arancia vera e propria.
Alex dovrebbe diventare un’arancia vera e propria e non essere un’arancia a orologeria, nel senso che dovrebbe avvenire in lui un processo di maturazione tale da portarlo a sentire realmente la correttezza di certi comportamenti. In questo modo le sue risposte agli stimoli sarebbero spontanee e autentiche, e lui diventerebbe un’arancia maturata al sole, ossia un uomo consapevole dei giusti valori.

Ma il succo di tutta la faccenda sarebbe stato che ai nostri giorni i martini (= gli uomini) venivano trasformati in macchine, ma che invece tutti […] avrebbero dovuto fare una crescita naturale come i frutti. (pag. 184)

Il discusso settimo capitolo della terza parte, aggiunto da Burgess pare su pressione dell’editore inglese, conferma questa interpretazione. Guarito e tornato libero, Alex riprende la sua attività criminale con tre nuovi drughi, ma qualcosa in lui comincia a cambiare: avverte il desiderio di mettere i soldi da parte, nel portafoglio tiene il ritaglio di una foto di bebè e nel futuro prossimo si immagina di ritorno a casa dal lavoro, con una mogliettina che lo aspetta e che gli ha preparato la cena.
L’incontro con l’ex soma Pete, già sposato e inserito, darà ad Alex lo sprone definitivo verso una corretta e autentica integrazione sociale.

Sapevo quello che mi accadeva, o fratelli miei. Io stavo tipo maturando (pag. 217)

Resta da sottolineare, in conclusione, come sullo sfondo del concetto di arancia meccanica ci sia una società altrettanto violenta come il teppista Alex, la cui violenza però è legittimata e meglio organizzata.

                                                                                                  Francesco Ricci

Le citazioni sono tratte da: Anthony Burgess, Un’arancia a orologeria, traduzione di Floriana Bossi, Torino, Einaudi, 1969

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